Economia sostenibile o sostenibilità sociale?
Negli ultimi anni i temi della sostenibilità e dell’economia circolare sono diventati di uso ricorrente, se ne è spesso abusato al fine di cavalcare l’onda modaiola del politically correct, a volte scordandosi del reale scenario circostante
La filiera dell’alluminio, in tematiche di economia circolare non ha mai dovuto seguire le mode, la circolarità del nostro metallo è un dato di fatto ed ha portato l’Italia ad essere sempre sul podio del riciclo raggiungendo e andando ben oltre i target posti dall’Europa. Dal 1990 ad oggi, l’industria dell’alluminio in Europa ha ridotto del 55% le proprie emissioni di CO2, in questi anni il tema del climate change, unito alle tematiche di sostenibilità, ha portato a traguardi molto ambiziosi per il contenimento delle emissioni dei gas serra, con il passare degli anni questi traguardi stanno diventando però più utopistici che ambiziosi. Un numero che spesso è ricorrente, è quello di quanto rappresentano le emissioni di gas serra dell’Europa, che si attesta all’8%, rispetto al resto del Mondo. I cittadini europei rappresentano il 9,5% della popolazione mondiale e risiedono sul 7% delle terre emerse. E’ vero che l’Europa è il vecchio continente, ma non per questo è quello che deve soccombere prima degli altri. I numeri qui sopra servono per ricordarci che spesso (insieme agli USA), l’Europa si autoeleva a paladina del globo, non rendendosi conto del suo peso molto esiguo rispetto alle altre economie del pianeta, con in prima linea quelle emergenti a cui le crociate per salvare il pianeta sembrano avere minore appeal. La transizione ecologica, con gli obiettivi del 2035 con lo stop alla vendita di vetture a combustione in Europa e del 2050 con la neutralità climatica, credo che dovrà essere adeguata alle reali possibilità di implementazione di tutto il tessuto sociale e non solo dell’industria. Anche la COP26 di Glasgow è stata di fatto un fallimento più o meno annunciato. Questo mio preambolo è semplicemente una fotografia di quello che gli ultimi anni ci hanno consegnato, ovvero la consapevolezza che se la transizione energetica deve essere fatta, non sarà a costo zero. Gli anni di pandemia hanno decisamente rotto gli equilibri, mostrando le fragilità che si sono venute a creare, andando ad evidenziare quanto l’Europa sia di fatto dipendente dai paesi emergenti. La Cina oggi copre il 60% dell’alluminio primario mondiale e il 95% del magnesio, che è uno dei principali alliganti delle leghe di alluminio; anche la produzione di silicio ha uno sbilanciamento verso la Cina con il 60% della produzione mondiale. Con in conflitto russo-ucraino, l’energia ha raggiunto picchi inimmaginabili nell’agosto dello scorso anno, sfiorando i 400 euro MW/h per il gas, andando di fatto a vedere aumentato il proprio costo con un rapporto di 1 a 20. Il nostro settore è riconosciuto ad alto rischio di carbon leakage, ma nonostante ciò, in Italia le compensazioni dei costi indiretti sostenuti dalle imprese vengono rimborsati utilizzando solamente il 7,1% dei proventi delle aste per gli ETS, mentre in Europa sono utilizzati mediamente per il 27% dei proventi. Per fare un raffronto con la Germania, alle imprese tedesche è riconosciuto il 31,5% dei proventi delle aste; in termini assoluti per l’Italia erano 90 milioni di euro, mentre per la Germania 833 milioni di euro. E’ inutile nascondersi dietro ad un dito, il sistema della filiera dell’alluminio in Italia ha retto per la capacità degli imprenditori e dei manager italiani di governare il caos facendo ricorso alla flessibilità che è il valore aggiunto che ci ha consentito di confrontarci sempre a testa alta con una concorrenza sempre più agguerrita e non sempre leale. La Cina ha riversato negli ultimi anni svariate centinaia di migliaia di tonnellate di semilavorati di alluminio in Europa, questo a fronte dei bassissimi costi di manodopera e di energia e grazie alla pressoché totale mancanza di politiche sociali e di sicurezza, che non hanno fatto altro che acuire ancora di più il gap che c’è tra il costo del lavoro europeo e quello della Cina, che aldilà di quanto appena menzionato, non perde occasione per sostenere la sua industria con manovre di dumping.
L’Europa e la transizione energetica
Per le aziende energivore come le nostre, hard to abate, al fine di sostenerle nel processo di transizione energetica ci devono essere dei meccanismi che consentano il mantenimento della competitività non soltanto verso paesi extra EU ma anche verso quei paesi all’interno dell’Europa che riescono a gestire in maniera più ferma e fattiva l’industria dell’alluminio. il CBAM (Carbon Board Adjustment Mechanism), che in linea di principio è una misura condivisibile, sembra declinarsi con modalità di difficile applicazione e soprattutto senza controllo. Corriamo il rischio concreto di applicare un regolamento controproducente e inefficace, che rischia di minare ulteriormente la competitività delle nostre imprese. Sempre più realtà cercano di utilizzare produzioni da materia prima a bassa emissione di CO2. Ormai in molti capitolati di prodotto vengono indicate le percentuali minime di materiale proveniente da riciclo, oggi si parte dalla progettazione dell’articolo per fare in modo che possa essere prodotto come frutto dell’economia circolare, ma al tempo stesso vengono imposti dei limiti su certe impurità nelle leghe di alluminio, creando così un paradosso. Limitando la presenza consentita di alcuni metalli nella lega, bisogna ricorrere a degli apporti di alluminio primario, che come sappiamo ha un carbon footprint che è in antitesi con la direzione presa. Bisogna quindi fare una distinzione tra gli obiettivi perseguiti e quelli realmente perseguibili. Agendo con delle restrizioni di utilizzo di alcune sostanze chimiche, si va a minare il percorso verso l’economia circolare. Altro tema importante è quello della fuga del rottame dall’Europa. Il Legislatore europeo sta tentando di intervenire, ma anche in questo caso le maglie del sistema sono talmente larghe che l’elusione della norma è dietro l’angolo.
La sfida della mobilità elettrica
Ho cercato di offrire una panoramica sul campo con un’analisi molto lineare dell’accaduto in questi ultimi due anni, lasciando per ultima la maggior preoccupazione che i nostri associati hanno, ovvero il passaggio troppo repentino da una mobilità a motore endotermico verso quella a motore elettrico. E’ inutile continuare imperterriti in una direzione se la strada che deve essere percorsa non è ancora pronta, senza la garanzia di una neutralità tecnologica per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione si corre solo il rischio di farsi del male. Le indicazioni che sono arrivate, e soprattutto le tempistiche attuative, sono arrivate più per partito preso che non da una reale analisi della situazione delle infrastrutture a supporto verso una visione di mobilità elettrica che oggi non è lontanamente perseguibile. Una valida alternativa che l’industria vede di buon grado, è quella dei bio combustibili in cui sono impegnate anche aziende leader italiane per lo sviluppo di questa fonte alternativa di energia. Come sempre, il sistema dell’alluminio in Italia rappresentato da Centroal e dai suoi associati, cercherà di dare supporto a questi ultimi. Siamo però consapevoli che le prime crepe si sono verificate in merito ad un possibile spostamento/deroga dell’agenda 2035 per lo stop alla vendita di vetture con motore a combustione. In conclusione, dal nostro punto di osservazione privilegiato, vediamo da un lato l’industria virtuosa dell’alluminio e dall’altro il pericolo che questa eccellenza subisca gravi perdite. Visto che i detti popolari non sbagliano mai, vorrei ricordarne uno: “Il giusto sta nel mezzo”; questo non per contestare il processo di decarbonizzazione, in cui l’alluminio sarà sicuramente parte attiva e propositiva, ma per sottolineare al tempo stesso se non governato in maniera adeguata, potrà portare problemi anche di natura sociale.