I dazi Usa su alluminio e acciaio
Il trionfo dell’ignoranza in uno scontro commerciale globale che rischia di distruggere un sistema di regole e di collaborazioni internazionali ben funzionante
di Mario Conserva
Lo scorso 16 febbraio l’amministrazione Usa, nell’ambito della Section 232, aveva emesso le proprie raccomandazioni al Governo circa gli effetti delle importazioni di prodotti di alluminio (e di acciaio) sulla sicurezza nazionale, nelle quali si raccomandava l’adozione di misure di protezione per il contenimento delle importazioni. Era un punto tra quelli proposti al suo pubblico da Trump, le motivazioni alla base delle raccomandazioni sono poco meno di una ridicola scusa da bar, comunque il tutto è sta confezionato opportunamente e messo in pista con un buon tempismo, ovviamente in vista delle prossime elezioni di medio termine e sulla scorta dei sondaggi elettorali. Come atto pratico conseguente, Donald Trump ha annunciato in pompa magna e con una certa teatralità il 9 di marzo l’imposizione di un dazio addizionale del 25% sulle importazioni sull’acciaio e del 10% sulle importazioni di alluminio da tutti i paesi, con l’eccezione riguardante al momento solo Canada, Australia e Messico. Per quanto riguarda Brasile, Argentina, Corea del Sud e Unione Europea, le misure sono temporaneamente sospese. E’ superfluo sottolineare l’eccezionale impatto di queste nuove misure, che dovrebbero entrare in vigore nell’arco di due settimane, sui flussi del commercio internazionale, un meccanismo delicato che tutto sommata sta funzionando discretamente. L’annuncio, anche se non inaspettato, ha dato luogo ad immediate forti reazioni negative in particolare da Paesi amici degli Usa, ed ha aperto lo scontro la dura presa di posizione a caldo della Commissaria europea al Commercio Cecilia Malmstroem, la quale ha dichiarato che se l’EU non dovesse essere esentata dalle misure, sarebbe inevitabile l’innesco di ritorsioni tariffarie sui prodotti statunitensi sensibili, citando il burro di arachidi e il succo d’arancia insieme ad altri 200 prodotti tipici del made in Usa. Anche il presidente della Commissione Jean Claude Juncker si è fatto vivo, affermando a caldo che, pur non amando le iperboli, il comportamento di Trump non può essere definito in altro modo se non come l’inizio di una guerra commerciale, ribadendo che l’UE potrebbe rivalersi con tariffe su importazioni di beni simbolo e cari ai repubblicani, come le moto Harley-Davidson, che si producono nel Wisconsin di Ryan, o il bourbon del Kentucky, che è lo Stato dell’influente capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell. Anche il Giappone si è fatto sentire con posizioni analoghe, avvertendo dei pericoli planetari derivanti dal colpo basso Usa ai mercati mondiali ed alle sue regole. Il fatto è che le misure Usa, che avranno comunque un impatto negativo sui mercati globali, se non ci saranno ripensamenti di Trump riguardo ad un miglior trattamento verso gli “amici” europei, determineranno realmente per quanto ci riguarda da vicino, una rivoluzione sulle relazioni transatlantiche, perché la posta in gioco è altissima, i nuovi dazi significano irrimediabilmente aumenti di costi e severe limitazioni di scelta per l’industria europea.
Il vero problema è la sovracapacità
La questione di fondo è nota da tempo: sia per l’acciaio che per l’alluminio esiste una sovracapacità produttiva globale generata dall’intensa espansione degli investimenti produttivi in Cina nei due segmenti; per vendere ad ogni costo, come è tipico di un’economia non di mercato, si è fatto ricorso a meccanismi distorsivi, basta citare gli innumerevoli casi di dumping. Questo è il punto di fondo e non lo si risolve con decisioni unilaterali che non avranno altro effetto se non quello di avvelenare ulteriormente il mercato; cosa dovrà fare, ad esempio, a sua volta l’Europa per salvaguardarsi da prevedibili flussi a valanga verso l’Ue di materiali e prodotti di acciaio e alluminio già destinati al mercato Usa e, a causa del blocco tariffario, dirottati nel vecchio continente?
Le reazioni e le possibili ritorsioni dagli altri paesi
E’ chiaro che per l’Europa trovare nuovi sbocchi alle proprie produzioni di acciaio e alluminio non sarebbe un problema di poco conto, inoltre molti siti produttivi, già in difficoltà per l’eccesso di offerta nel mondo e la loro bassa redditività, si troverebbero a rischio sopravvivenza. Allo stato delle cose, ancora molto fluido, l’impressione è che l’UE sia pronta a reagire in modo proporzionato e in linea con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), nel caso in cui le misure statunitensi siano formalizzate e incidano sugli interessi economici dell’UE; dovrebbero essere escluse ritorsioni a specchio riferite ai casi specifici dei due metalli interessati, non solo perché non potrebbero essere unilaterali verso gli Usa, ma fondamentalmente perché sarebbero il colpo di grazia per i due segmenti di industria che non sono fatti solo di produzioni di metalli grezzi ma anche, e soprattutto, di trasformazioni, lavorazioni ed impieghi a valle. Teniamo presente, cosa che non tutti riescono a fare con la indispensabile onestà intellettuale richiesta in questo tipo di analisi, che il downstream dell’alluminio europeo è già penalizzato da un cervellotico dazio sull’importazione di metallo grezzo, per un extra costo di oltre un miliardo di euro l’anno. In caso di necessità, cioè se i dazi su acciaio e alluminio dovessero essere confermati per l’Europa, si ipotizza la ritorsione di dazi europei con una tariffa del 25% su 3,5 miliardi di dollari di importazioni di prodotti statunitensi rilevanti, come prodotti agricoli, beni di consumo, bevande alcoliche.
Ma anche in usa crescono le proteste
D’altra parte le decisioni di Trump hanno sollevato un putiferio di discussioni anche in casa, e non poteva essere altrimenti, perché nel commercio globale i meccanismi sono piuttosto complicati, la quadratura non è facile, i fasulli colpi di genio e le improvvisazioni non sempre funzionano e non ci sono troppe scorciatoie. Sono ovviamente soddisfatti i produttori statunitensi di acciaio e di alluminio e i circa trecentomila lavoratori dei due settori, ma di avviso completamente diverso sono i milioni di persone che negli US operano nei rispettivi segmenti industriali a valle delle produzioni primarie interessate, che si vedono di fronte un futuro poco allegro: di conseguenza l’Aluminum Association, la potente associazione americana dell’alluminio, con 114 aziende associate che impiegano 713.000 lavoratori negli Stati Uniti, ha fatto presente chiaro e tondo a Trump che la Section 232 Tariff sull’alluminio non è affatto una buona idea, affermando che i dazi proposti non sono il rimedio al problema fondamentale della forte sovracapacità dell’alluminio in Cina, ed avranno severe ripercussioni negative sulle partnership commerciali delle catene di approvvigionamento che giocano secondo le regole. In altre parole, sarà fortemente penalizzata l’occupazione nelle trasformazioni e nelle applicazioni a valle della filiera del metallo leggero, come dire un danno serio per il 97% dell’occupazione totale nel settore dell’alluminio. Fa piacere sentire esprimere questi concetti da un’associazione dell’alluminio tra le più forti al mondo, che evidentemente non intende prendere solo le parti dei grandi produttori di metallo, ma guarda anche alla filiera completa.
Sui medesimi toni sono i commenti di un’altra importante associazione americana del settore, quella dell’estrusione dell’alluminio, l’Aluminum Extruders Council (AEC), che invitando caldamente Trump a riconsiderare la sua decisione, ha affermato che gli effetti di un dazio del 10% sulle importazioni statunitensi di alluminio grezzo porterebbero a cancellare almeno 23.000 posti di lavoro nella catena alluminio statunitense e non meno di 90.000 posti di lavoro diretti nel settore manifatturiero degli Stati Uniti.
Scontate infine le gravi preoccupazioni espresse dai portavoce di aziende ed associazioni dei settori di utilizzo finali, dalle auto all’imballaggio, dalle costruzioni all’industria meccanica; ne riportiamo una rapida sintesi ripresa dai comunicati apparsi sulla stampa Usa: la Motor & Equipment Manufacturers Association, rappresentante le aziende statunitensi che producono componentistica automotive, ha fatto presente che i nuovi dazi renderanno le auto più costose e le nuove misure tariffarie potrebbero mettere a rischio molti degli oltre 800.000 posti di lavoro nel settore; la Ford, che naturalmente impiega molto acciaio e alluminio per le proprie automobili, ha dichiarato in una nota dai toni molto prudenti che le tariffe potrebbero determinare un aumento dei prezzi delle materie prime domestiche, danneggiando la competitività dei produttori americani; il produttore di birra Coors Light e Miller Light ha dichiarato che l’aumento dei prezzi potrebbe portare a perdite di posti di lavoro in tutta l’industria delle bevande; i portavoce dell’industria petrolifera hanno avvertito che i dazi sull’acciaio imposti da Trump potrebbero far deragliare il boom energetico del paese determinando aumenti di prezzo sull’acciaio importato in US che le compagnie petrolifere utilizzano in gran quantità nelle perforazioni e nella produzione, nonché nei gasdotti e nelle raffinerie.
Riguardo infine all’industria degli elettrodomestici, Whirlpool, che recentemente ha beneficiato del dazio imposto da Trump sull’import in US di lavatrici, ha affermato che le nuove misure faranno lievitare i costi di produzione in US di molti prodotti della filiera, come gli essiccatori e i frigoriferi.
Qual è la logica di tutto questo?
La ciliegina sulla torta di questa controversa ed apparentemente insensata presa di posizione unilaterale decisa da Trump è che le misure saranno fragorose e probabilmente piene di conseguenze negative un po’ per tutti, ma non incideranno più di tanto sul problema vero che è appunto la sovracapacità cinese di acciaio e di alluminio. La Cina non troverà troppe difficoltà a piazzare altrove il suo surplus produttivo di metalli, avrà peraltro tutto il tempo che vuole per mettere in pista ritorsioni contrarie e non sarà poi neanche tanto difficile, basta ricordare che la Cina è il maggiore detentore mondiale del debito del Tesoro Usa. In compenso si rischia una guerra commerciale senza precedenti, tornando indietro di molti decenni. A chi giova allora tutto questo? La risposta ci verrà probabilmente dalle elezioni americane di metà mandato del prossimo novembre.