Cobot e digitalizzazione a supporto dell’assemblaggio manuale
Lo scorso dicembre, Fiam ha organizzato un interessante seminario con l’obiettivo di fare il punto tecnologico sull’evoluzione delle postazioni di assemblaggio manuale in contesti produttivi “4.0”. Dalle prospettive che si aprono grazie all’utilizzo dei robot collaborativi alle prime sperimentazioni delle celle di lavoro “connesse”, abbiamo approfondito insieme ai relatori alcuni possibili scenari. Un quadro
di cambiamento che non può prescindere, però, dalla centralità dell’operatore.
di Fabrizio Dalle Nogare
Oltre che alle macchine e alle linee automatiche e semi-automatiche, i concetti di digitalizzazione, connettività ed estremo controllo delle fasi di produzione possono essere certamente applicati anche alle postazioni manuali di assemblaggio. Con grandi vantaggi potenziali in termini di maggiore efficienza, aumento della produttività e benessere degli operatori.
L’azienda vicentina Fiam ha organizzato lo scorso 5 dicembre il seminario dal titolo “L’evoluzione della postazione di assemblaggio industriale in ambienti Industry 4.0” (vedi box a pag. 48), coinvolgendo in qualità di relatori due esperti d’eccezione dell’Università degli studi di Padova: il professor Giulio Rosati, docente di Meccanica Applicata alle Macchine e Robotica Industriale, e il professor Maurizio Faccio, docente di Impianti Meccanici e Gestione degli Impianti Industriali.
I contributi forniti dai docenti, l’intervento di Ivan Casetto di SMAC – azienda vicentina attiva nel settore dell’automazione industriale – e soprattutto il confronto con chi ogni giorno si occupa di assemblaggio hanno fatto emergere spunti molto interessanti sull’evoluzione delle postazioni manuali di assemblaggio e sull’integrazione con i robot, specialmente con i collaborativi che, proprio per le loro caratteristiche distintive, ben si adattano non solo a condividere l’area di lavoro con l’operatore, ma anche a effettuare operazioni di montaggio.
Robot collaborativi e assemblaggio: l’integrazione è possibile
I robot collaborativi, infatti, pur avendo performance nettamente inferiori in termini di velocità rispetto ai robot industriali tradizionali, sono in grado di creare una sorta di ecosistema funzionale in cui le peculiarità migliori dell’uomo e del robot vengono messe a fattor comune.
“L’assemblaggio è un’attività ad alto valore aggiunto, che richiede molta manualità ed esperienza da parte dell’operatore ed è anche la fase più difficile da automatizzare”, ci ha detto il professor Rosati, che nel corso dell’evento ha parlato diffusamente di robotica applicata ai sistemi di assemblaggio. “Consideriamo, infatti, che in Italia su 100 robot installati solo 3 svolgono operazioni di montaggio vere e proprie, a fronte dei 65 che si occupano di manipolazione, per esempio”.
Una quota ancora evidentemente bassa, che potrebbe però in un futuro prossimo aumentare grazie proprio all’avvento dei robot collaborativi, che sono, sempre secondo Giulio Rosati, “una novità assoluta, forse la più importante che ha interessato la robotica negli ultimi 30 anni. Infatti, se finora eravamo abituati a una visione duale – da un lato l’operatore che impiega strumenti meccanici, dall’altro la totale automazione del processo di assemblaggio -, adesso è possibile unire l’abilità dell’operatore con le caratteristiche del robot, ottenendo così un’operazione automatizzata semplificata. In più, l’operatore può portare nell’isola robotizzata quel grado di flessibilità in più che è non solo molto costoso, ma anche difficile da ottenere in operazioni puramente automatizzate”.
Ostacoli e criticità
Fin qui, tutto molto bello. Ci sono però alcuni aspetti da considerare quando si parla di integrare i robot collaborativi nelle postazioni di assemblaggio, e riguardano un argomento molto sensibile come la sicurezza. “Sebbene il robot in sé sia certificato come sicuro al momento della vendita, quando viene dotato di un end-effector, per esempio un organo di presa, cambia il fattore di rischio e l’applicazione potrebbe non essere certificabile”, spiega il professor Rosati. “Il classico esempio è quello di un robot che muove un oggetto tagliente, con i rischi conseguenti quando si avvicina all’operatore. Questo limita fortemente la flessibilità del robot collaborativo, che è attrattivo proprio perché flessibile e semplice da configurare e utilizzare specialmente quando si parla di PMI, generalmente restie ad acquistare automazione, soprattutto se si parla di robot, perché considerati strumenti ad alto contenuto tecnologico e quindi dalla gestione piuttosto complicata”. Ci sono pochi dubbi, tuttavia, sul fatto che i robot collaborativi possano contribuire a migliorare l’ergonomia e le condizioni di lavoro degli operatori, sgravandoli da operazioni faticose o ripetitive. “L’avvitatura può essere un ottimo esempio – conclude Rosati – proprio perché si tratta di un’operazione particolarmente faticosa, in quanto la coppia esercitata dall’avvitatore per portare a termine il compito deve essere contrastata dall’operatore”.
La cella di assemblaggio “connessa”
L’Università di Padova, in collaborazione con alcune aziende del territorio, ha sviluppato una cella di assemblaggio “connessa”, vale a dire in grado di adattarsi agli elementi fondamentali di una postazione. Cioè il prodotto da assemblare e l’operatore. In funzione di questi e delle attività previste dal ciclo produttivo, la cella cambia la propria configurazione. “Questo dà all’operatore due vantaggi fondamentali – afferma il professor Maurizio Faccio – e cioè ridurre lo spazio che deve percorrere nella micro-logistica della stazione, con un effetto diretto sulla produttività, e migliorare l’aspetto ergonomico. Infatti, le posizioni di presa dei componenti sono gestite con l’obiettivo di mettere l’operatore nelle condizioni più agevoli per lavorare”.
Ma come funziona la cella, che è già stata sperimentata in alcune realtà aziendali? “La cella – continua il professor Faccio – ha una serie di attuatori controllati, che gestiscono l’altezza del piano di lavoro, la posizione dei materiali di fronte all’operatore in funzione della dimensione del prodotto, e una telecamera dimensionale che monitora la posizione delle mani dell’operatore. Il nostro obiettivo è ottenere una cella che si adatti rispetto all’attività in real-time della persona grazie al controllo fornito dai sistemi di visione”.
Supportare l’operatore, istruirlo sulla sequenza di attività, selezionare i prodotti da prelevare: sono queste le principali funzioni di una postazione di lavoro connessa. Nel mondo dell’avvitatura, per esempio, esistono sequenze differenti a seconda dell’angolo da applicare o del tipo di attività che deve essere svolta.
Accrescere le competenze delle persone: il valore aggiunto del job enlargement
Naturalmente, celle di questo tipo sono applicabili a qualsiasi settore industriale, ma sono particolarmente indicate in settori, come quello automotive, che presuppongono la produzione di componenti di sicurezza. “Ovunque ci sia la necessità di certificare un ciclo di montaggio, occorre essere sicuri che l’operatore abbia svolto correttamente un’attività, utilizzando i componenti corretti”, aggiunge il professor Faccio. “Finora abbiamo sperimentato la cella connessa in applicazioni che si trovano in contesti ad alta variabilità. Una volta provati i benefici, gli operatori hanno accolto favorevolmente la novità: chi ha iniziato a lavorare nelle nuove linee produttive non vorrebbe più tornare alle soluzioni più tradizionali. Ad oggi, dunque, il riscontro sugli operatori in ambito industriale è molto positivo”.
È importante capire come le persone accolgano innovazioni di questo tipo proprio perché è la modalità stessa di lavoro degli operatori di fabbrica che presumibilmente cambierà nei prossimi anni. Secondo i docenti dell’Università di Padova, infatti, “gli operatori avranno un ruolo a maggiore variabilità e a più alto valore aggiunto. Bisogna allargare le competenze delle attività dell’uomo attraverso un meccanismo di job enlargement in cui gli viene richiesto di svolgere attività più critiche. Si tratta di un meccanismo che rende il lavoro quotidiano molto più motivante”.