La Cina che cambia pelle è una questione globale
Paese estremamente complesso ed eterogeneo, la Cina si appresta a vivere un momento di profonda trasformazione economica e industriale. Si pensi, per esempio, all’applicazione del Piano Made in China 2025, destinato a mettere a rischio il primato tecnologico dell’Occidente. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Filippo Fasulo, coordinatore scientifico del Centro Studi della Fondazione Italia Cina.
by Fabrizio Dalle Nogare
Nata nel 2003 per volontà di Cesare Romiti, la Fondazione Italia Cina è un ente senza scopo di lucro che si pone l’obiettivo di favorire il dialogo tra i due Paesi da un punto di vista economico, culturale e scientifico e annovera tra i suoi soci ministeri, Regioni, Confindustria, nonché importanti aziende e gruppi finanziari italiani. La Fondazione – che dallo scorso giugno ha un nuovo presidente, il fondatore di Brembo Alberto Bombassei – ha al suo interno alcuni enti, tra cui la Camera di Commercio Italo Cinese, la Scuola di Formazione Permanente e il CeSIF, il Centro Studi della Fondazione. Filippo Fasulo, coordinatore scientifico del CeSIF e grande conoscitore della Cina, è tra i curatori del Rapporto annuale “Cina. Scenari e prospettive per le imprese”.
Quali sono i principali trend che emergono dal Rapporto di quest’anno?
Tre termini ci permettono di sintetizzare quanto sta avvenendo in Cina: consumi, qualità e globalizzazione. Consumi, perché la Cina sta attraversando una fase di normalizzazione economica, definita New Normal, che prevede tassi di crescita più bassi e soprattutto una maggiore attenzione ai consumi interni. Il focus, poi, si sposta dalla quantità alla qualità dei consumi e della produzione, e in questa fase potrebbero aprirsi molti spazi per le aziende italiane che vogliono esportare eccellenze in Cina. Infine, la terza parola, globalizzazione: la Cina è alla ricerca di nuovi mercati e vuole presentarsi ovunque con prodotti nuovi, ad alta intensità tecnologica. Il caso “di scuola” è quello della telefonia, dove già oggi gli operatori cinesi sono di primissimo livello internazionale.
Sono, questi, alcuni dei capisaldi del Piano Made in China 2025, entrato di prepotenza nell’agenda globale?
Il Piano Made in China 2025 – varato nel 2015 dal Governo con l’ambizione di migliorare la produttività del settore industriale cinese – estende la questione della qualità anche alla produzione. È una potenziale rivoluzione, che prende avvio, almeno inizialmente, dal filone di Industry 4.0 ma ha un campo d’azione più ampio; non si limita, infatti, a recepire le istanze della quarta rivoluzione industriale ma mira piuttosto a riconvertire interamente il tessuto industriale cinese, con l’obiettivo di far diventare la Cina un produttore di prim’ordine. Le implicazioni sono soprattutto due: nel breve periodo ci sarà una grande domanda cinese di tecnologia straniera per colmare il gap, mentre in una seconda fase le imprese cinesi aumenteranno la loro competitività.
Il Piano avrà ricadute soltanto all’interno del mercato cinese oppure il know-how accumulato potrà essere speso in tutto il mondo?
L’applicazione del Piano avrà effetti in tutto il mondo, non solo in Cina. E qui si inserisce anche la Belt and Road Initiative, ovvero la Nuova Via della Seta, che è molto più di una questione infrastrutturale: è un progetto che mira a facilitare sia le relazioni bilaterali ed economiche che la penetrazione in nuovi mercati. Sta, insomma, cambiando completamente la geografia economica. La sintesi potrebbe essere che, in futuro, avremo più incontri con la Cina ma la Cina che incontreremo sarà una nazione diversa. E il primato tecnologico dell’Occidente non è più un fattore immutabile.
Cosa possono fare le nostre imprese per reagire a questi cambiamenti?
Investire in ricerca & sviluppo, cercando di coltivare le caratteristiche che rappresentano il cuore dell’eccellenza italiana: penso a creatività, posizionamento tecnologico elevato, flessibilità. E poi smetterla di considerare la Cina come un singolo elemento unitario. Al contrario, la Cina è un insieme di 31 unità amministrative, ognuna con le proprie peculiarità e con differenze importanti, a livello sia geografico che settoriale. Questa distinzione è fondamentale per comprendere davvero il paese.
La transizione in atto implica anche dei rischi per la Cina?
È un processo sicuramente complesso, con il passaggio da un modello quarantennale a un modello di nazione rivolto al futuro. Il governo cinese deve gestire una serie di equilibri molto complessi e si spiega così, con la necessità di fare le riforme, l’accentramento di poteri che il presidente Xi Jinping sta mettendo in atto.
Nel Rapporto, inoltre, abbiamo evidenziato come la Cina sia sì un paese in grande ascesa, ma non invincibile. L’elevato indebitamento, l’eccessiva presenza di imprese statali o la necessità di mantenere il consenso in tutto il paese sono fattori di debolezza con cui fare i conti. Gli scontri commerciali in atto con le altre potenze mondiali, in primis gli Stati Uniti, potrebbero lasciare il segno.
Si parla molto degli effetti nefasti dell’automazione sui posti di lavoro. È un argomento caldo anche in Cina?
È un tema assolutamente centrale per quanto riguarda l’industria di Stato, e specialmente l’industria pesante, che deve necessariamente essere riconvertita, con costi importanti da affrontare. La questione dei dazi ha creato problemi all’esecutivo cinese perché tocca un settore che si sta trasformando profondamente.
Qual è la situazione attuale dell’interscambio tra Italia e Cina? E a che punto sono le relazioni commerciali tra i due paesi?
Le relazioni commerciali sono in netto miglioramento. Quest’anno si è registrato il record delle esportazioni italiane in Cina e l’interscambio potrebbe crescere ancora, soprattutto per la domanda di qualità da parte della Cina. Sono in crescita anche gli investimenti diretti cinesi in Italia, che sempre più spesso si rivelano esperienze positive e non dettate dalla volontà di smantellare o soltanto di acquisire know-how.
Cosa deve fare un imprenditore realmente illuminato che vuole approcciare il mercato cinese?
Deve studiare moltissimo, essere consapevole che la Cina non è un mercato come un altro, ma ha delle dinamiche interne molto complesse e meccanismi di funzionamento peculiari, a partire dai sistemi istituzionale e legale.
Deve anche essere consapevole del fatto che la Cina non è un’opzione tra le tante, ma è un mercato ineludibile. Non si può non avere a che fare con la Cina, insomma. Proprio per questo stiamo potenziando l’attività del Centro Studi, uno strumento che riteniamo fondamentale per supportare l’attività commerciale in Cina.