Intervista a Federico Visentin di Federmeccanica
Nei suoi oltre cinquant’anni di vita, Federmeccanica ha visto cambiare radicalmente il settore metalmeccanico italiano in termini tecnologici, dimensionali e di organizzativi. Oggi il comparto manifatturiero italiano è ai vertici delle classifiche europee e mondiali, ma per mantenere questo ruolo serve che alla creatività che lo contraddistingue da sempre si affianchi anche un’attitudine all’innovazione diffusa a tutti i livelli, che coinvolga imprenditori, lavoratori e studenti. Abbiamo incontrato Federico Visentin, Presidente Federmeccanica, per capire come la metalmeccanica italiana stia affrontando queste sfide così cruciali per il suo futuro.
Rialzi dei costi di materie prime ed energia, tensioni internazionali, l’incertezza sul futuro dell’automotive… Sono tante le incognite che caratterizzano presente e futuro di questo settore: come stanno reagendo le aziende metalmeccaniche italiane? Quali sensazioni sentite fra gli associati?
Il polso delle nostre imprese ha un battito irregolare. Le nostre indagini ci dicono che in prospettiva la produzione potrebbe aumentare ma con essa si incrementano anche i costi di produzione ed i margini si riducono. Un vero e proprio paradosso. Nonostante questo, le aziende non fanno passi indietro, anzi rilanciano come dimostra il dato sugli investimenti che sono previsti da più del 70% delle imprese intervistate. È chiaro che non possiamo essere lasciati soli, si devono mettere in campo misure che sostengano gli investimenti in tutto il Settore. Con riferimento all’automotive occorre premettere che è una cinghia di trasmissione della metalmeccanica e più in generale dell’Industria e quello che succede in questo comparto è destinato ad estendersi a tutta l’economia italiana. La transizione tecnologica ed ecologica, infatti, è un tema di interesse generale e i primi impatti li sta affrontando proprio l’Automotive. Abbiamo sempre sostenuto che la transizione ecologica debba essere guidata dalla tecnologia e sostenuta da politiche Industriali. Noi siamo i primi ad affermare l’importanza del rispetto dell’ambiente, su questo non devono esserci dubbi. Allo stesso tempo sosteniamo che debba essere la scienza ad individuare tutte le possibili soluzioni per raggiungere l’obiettivo della sostenibilità. Oggi con l’apertura agli e-fuel da parte della UE sembra che questo approccio incominci a farsi strada, e va sostenuto. Non si deve però pensare che lo scenario possa cambiare in maniera radicale, perché l’elettrico continuerà ad essere il filone principale. Allora dobbiamo insistere sulla necessità di politiche industriali vere, sostanziali, abbandonando una volta per tutte quella rincorsa alle emergenze che ha sempre caratterizzato le misure italiane. Il supporto alla domanda deve pertanto essere marginale, mentre si deve sostenere l’offerta, puntare sull’innovazione di prodotto e sulla ricerca e sviluppo. Tutto ciò all’interno di una strategia che punti alla crescita strutturale, non solo e non tanto dimensionale, delle nostre imprese. Dobbiamo avere obiettivi di medio e lungo termine volti a creare in Italia grandi rimorchiatori nazionali, e nel frattempo attrarre investimenti dall’estero. Le nostre imprese dell’Automotive – e non solo – hanno bisogno di politiche industriali e di certezze. Solo così potremo gestire e guidare i grandi cambiamenti senza subirli.
Nei trent’anni di vita della nostra rivista il settore delle lavorazioni meccaniche della lamiera è cambiato radicalmente a livello di tecnologie, sfide e tendenze. Com’è cambiata Federmeccanica? Qual è oggi il ruolo e la mission di una Federazione Sindacale in un contesto che è molto diverso da quello in cui è nata?
Federmeccanica è nata il 15 settembre 1971 ai tempi dell’Industria fordista, quando nelle fabbriche c’era una produzione di massa; oggi, nel pieno della quarta rivoluzione industriale, con il passaggio ad una produzione sempre più personalizzata, le distanze tra capitale e lavoro si sono ridotte fino ad annullarsi. L’impresa è diventata un bene di interesse comune e la persona è divenuta centrale. I nostri collaboratori non sono solo agenti del cambiamento, ma anche i protagonisti del cambiamento stesso. Federmeccanica ha per questo motivo avviato nel 2015 un Rinnovamento che non è solo contrattuale ma anche culturale. I nostri Contratti del 2016 e del 2021 sono stati animati da uno spirito riformatore ed abbiamo avviato un percorso di diffusione di una positiva cultura d’impresa e del lavoro nelle aziende, nelle comunità e nella società civile. Come dimostrano le nostre indagini resiste ancora una percezione delle fabbriche e delle figure professionali che ci lavorano non corrispondente alla realtà. Molto è stato fatto ma c’è ancora tanta strada da compiere. Noi come sempre faremo la nostra parte.
Per sfruttare a pieno tutte le opportunità della digitalizzazione e di Industria 4.0 le aziende italiane, specie le più piccole, non hanno bisogno solo di nuovi impianti e tecnologie, ma anche di avere al loro interno skill e competenze nuove. La formazione è la sfida principale per il settore? Le aziende metalmeccaniche italiane di cosa hanno bisogno sotto questo fronte?
Anche la migliore tecnologia senza le necessarie competenze è destinata ad essere una cattedrale nel deserto. C’è un unico modo per rendere le nostre aziende un terreno fertile per far fruttare le nuove tecnologie, avere persone con competenze funzionali ad esse. Per questo serve un’azione di sistema, un eco sistema dell’apprendimento che coinvolga scuole, università, centri di ricerca ed aziende.
La formazione che fanno le aziende deve essere la continuazione di un percorso iniziato con l’istruzione. Per questo abbiamo sempre chiesto il rafforzamento dell’alternanza scuola lavoro che invece è stata depotenziata nel 2018, riducendo le ore obbligatorie e conseguentemente le risorse. Si tratta di uno di quei pochi casi in cui la qualità (dello strumento) coincide con la quantità (di ore e di risorse). Ed è proprio la qualità dell’istruzione e della formazione il punto centrale. Non basta fare una formazione qualunque, fine a sé stessa. Serve una formazione finalizzata, mirata. Non c’è dubbio che le piccole imprese possano incontrare molte difficoltà non solo a fare la formazione, ma soprattutto a farla bene. Ritorna sempre la necessità di avere imprese strutturate ogni qual volta si affrontano aspetti specifici aziendali, come appunto la formazione. Ci siamo comunque dati da fare per aiutare le imprese meno attrezzate. Da questo punto di vista il CCNL del 2021 ha previsto servizi per la formazione da mettere a disposizione delle imprese, servizi che oggi sono realtà con MetApprendo, piattaforma che agevola l’organizzazione e la registrazione della formazione continua per tutti i lavoratori delle imprese metalmeccaniche e dell’installazione di impianti. Sono tante le opportunità che ne derivano per le imprese ed i collaboratori come, ad esempio, la possibilità di registrare e certificare la formazione fatta attraverso la tecnologia blockchain. Da decenni si parlava di libretto formativo del lavoratore, ora nel nostro settore tutto questo è possibile grazie al fascicolo digitale del lavoratore.
Per anni si è ripetuto “piccolo è bello” lodando le aziende italiane, poi però tanti hanno indicato proprio nelle dimensioni ridotte di tante aziende metalmeccaniche un freno alla crescita. Cosa ne pensa lei? Esiste un problema dimensionale per le aziende metalmeccaniche italiane?
Siamo la seconda più grande manifattura d’Europa con la stragrande maggioranza di piccole imprese; infatti, più del 90% delle nostre aziende hanno meno di 50 dipendenti. Le grandi sfide connesse alla transizione tecnologica ed ecologica, i condizionamenti derivanti da nuovi scenari geopolitici, i cambiamenti repentini nelle catene di approvvigionamento e nelle filiere, rendono oggi necessarie organizzazioni aziendali ben strutturate. Si deve essere capaci non solo di avere processi efficienti e di sviluppare prodotti sempre all’avanguardia, ma anche di disegnare modelli di business che consentano di gestire le profonde trasformazioni in atto, e di anticipare quelle che verranno. La crescita delle imprese deve pertanto costituire un cardine fondamentale delle politiche industriali del Nostro Paese. Esistono già̀ alcuni strumenti che andrebbero potenziati, come la Cassa depositi e Prestiti, perché́, non dimentichiamolo, per far crescere le imprese servono i capitali. Come detto, non è tanto una questione di dimensione quanto di essere strutturati ed ovviamente non tutte le migliaia di piccole imprese potranno o dovranno diventare grandi: si tratta di avere grandi gruppi italiani che possono alimentare le nostre filiere che saranno fatte ancora di piccole e medie imprese, ma che oggi troppo spesso sono conto terzisti di imprese straniere all’interno di una morsa che riduce i margini e le possibilità di sviluppo. Si tratta quindi di uscire da una situazione di dipendenza tattica per acquisire autonomia strategica.
Per tante realtà metalmeccaniche (e non solo) il passaggio generazionale è un momento molto delicato, a volte anche decisivo nella vita di un’azienda. Nella sua esperienza di imprenditore oltre che di presidente ha individuato delle scelte o strategie che possono aiutare in queste fasi?
Oggi il passaggio più critico che va affrontato non è quello generazionale, ma il passaggio verso nuovi modelli di business. Il tema è sempre quello di sviluppare aziende che siano strutturate, con organizzazioni del lavoro avanzate per affrontare le grandi sfide che ci attendono. Servono quindi anche nuove competenze per consentire ai nostri imprenditori e ai nostri manager di guidare questi nuovi gruppi industriali, e quindi è necessario investire convintamente anche nell’alta formazione. Questo è quello su cui sto puntando nella mia azienda, come Presidente di Federmeccanica e come Presidente del CUOA, che è per l’appunto, una scuola di alta formazione. Anche in questo caso è necessario mettere in campo un’azione di sistema che veda coinvolte le imprese, le associazioni di categoria, le scuole di formazione e le istituzioni.
Di cosa ha bisogno l’industria metalmeccanica italiana per crescere? Riforme strutturali, supporti agli investimenti, politiche pro-export…
Noi, insieme ai sindacati, abbiamo dimostrato con gli ultimi due Contratti che le riforme si possono fare. Aggiungerei che le riforme si devono fare. Ci sono riforme che a livello di Paese si fanno attendere da tanto, troppo tempo. Una su tutte è il taglio del cuneo fiscale. Lo abbiamo detto più volte: non servono segnali, bonus o misure temporanee, così si sprecano solo risorse. Servono misure strutturali e di sostanza che lascino il segno. Anche sulle politiche attive siamo in affannoso ritardo. Quanto fatto finora non ha portato risultati tangibili. Serve rafforzare il rapporto tra il pubblico ed il privato, tra i centri per l’impiego e le agenzie per il lavoro. Noi abbiamo avviato da tempo una collaborazione con l’agenzia per il lavoro Umana che ha formato persone inoccupate e disoccupate per creare quei profili che servono alle nostre imprese. Più di 400 persone – da quando è iniziato il progetto nel 2015 – hanno trovato un’occupazione grazie a questa iniziativa. È solo un esempio di quello che si può fare con il ricorso a soggetti specializzati. Le politiche attive devono comunque essere accompagnate da politiche industriali perché le nuove competenze che verranno create, corrispondano a nuovi lavori in nuove fabbriche. Sono due facce della stessa medaglia.
Le chiedo infine di aiutarci a capire cosa vuol dire, nel nostro settore della metalmeccanica, essere innovativi. Quali sono gli elementi che dimostrano una vera innovazione in un’azienda?
Quelli che in questi anni ce l’hanno fatta hanno puntato soprattutto sull’innovazione, sulla capacità di trovare nuove formule, nuove soluzioni e nuovi modelli. Questa è la caratteristica principale di quel Made in Italy conosciuto in tutto il Mondo che forse dovremmo iniziare a definire Invented in Italy. La creatività, la forza delle idee, è stata da sempre il nostro differenziale competitivo, che ci ha consentito di arrivare, e di rimanere ai vertici delle classifiche delle manifatture europee e mondiali. Per fare innovazione occorrono idee e ingenti risorse, serve un’adeguata organizzazione, servono conoscenze e competenze distintive. Per certi aspetti si dovrebbe ripartire dalle basi e c’è un fattore culturale alla base dell’innovazione, che va sviluppato nelle persone, a partire dai primi passi del percorso educativo. Una nuova condizione che si fonda prima di tutto su una crescente attitudine all’innovazione, che deve essere diffusa e promossa in ogni ordine e grado del percorso formativo dei nostri ragazzi. L’obiettivo è, per quanto possibile, concorrere a creare una nuova generazione di imprenditori e di lavoratori capaci di consolidare questa soft skills – l’attitudine all’innovazione – nelle aziende di domani. Perché ciò si realizzi, è indispensabile diffondere la consapevolezza di quanto sia vitale l’innovazione. Il passaggio successivo è la qualità dell’innovazione, che deve essere sempre una innovazione consapevole. Non basta introdurre nuove tecnologie, se queste non vengono poi inserite in nuovi modelli di business, e se non diventano parte integrante di un progetto di crescita delle aziende. L’innovazione non discende solo dall’investimento in una nuova tecnologia. Le nuove macchine dotate di sensori devono connettersi tra di loro ed inserirsi in nuovi modelli di business dove nuove competenze possono portare a ulteriori innovazioni. La ricerca e sviluppo, che sono il cuore dell’innovazione, dovrebbero diventare l’anima delle politiche industriali e anche delle politiche educative. Tutte le nostre scuole, non solo gli ITS o alcune università, devono diventare anche laboratori di idee dove si studia e si comprende l’essenza dell’innovazione, dove si gettano i semi della ricerca e sviluppo, dove si stimola la creatività. In questo modo le future generazioni saranno in grado di sviluppare nuove tecnologie e di introdurle nella maniera più efficace nelle imprese e nella Società.