Il futuro della tecnologia passa dalle materie prime
Quali sono i fattori che determineranno gli equilibri mondiali nel prossimo futuro? Quale sarà il peso dello sviluppo tecnologico in questa “gara”? Oggi si parla della tecnologia come dell’elemento fondamentale per garantire uno sviluppo non solo economico ma anche sociale e, chi più chi meno, nel mondo si punta a incentivare gli investimenti in tale ambito.
In Europa si parla per lo più di automazione, robotica, cloud, di valorizzazione e incremento delle competenze… e tutti i piani industriali a livello nazionale contemplano essenzialmente l’acquisto di tecnologia e incentivi sulla formazione. Tutto bene, ma forse stiamo dimenticando due fattori che riguardano l’economia globale e le strategie di investimento nazionali e che stanno a monte nella filiera dello sviluppo tecnologico: l’approvvigionamento delle materie prime e, nello stesso tempo, lo sviluppo e la conseguente gestione di nuovi mercati. Sono due aspetti che determinano il futuro di tutte le economie mondiali e, oggi, c’è un Paese che sta ponendo le basi per diventare la vera superpotenza mondiale da cui tutti gli altri potenzialmente dipenderanno: la Cina.
Il primo Paese asiatico è il maggiore produttore in assoluto delle cosiddette “terre rare”, ovvero i 17 elementi chimici che sono, di fatto, la chiave per sviluppare i settori e tecnologie più avanzate: aerospaziale, nucleare, superconduttori, cavi di fibre ottiche, computer, telefoni cellulari e così via.
La Cina dispone della maggior parte di giacimenti (oltre il 30%) e la maggior produzione in assoluto che prevede costi enormi per l’estrazione e la lavorazione degli stessi. A dispetto del loro nome, trovare questi elementi in natura non è così raro; il problema nasce dalla difficoltà nel separarli dalle rocce in cui sono contenuti e raffinarli, un processo molto articolato che richiede diversi passaggi chimici con costi e rischi di inquinamento, anche radioattivo, elevati. Tra la fine degli anni ’90 e il 2010 la Cina controllava circa il 97% della produzione mondiale di terre rare; oggi diversi Paesi hanno ripreso a investire e la percentuale cinese è passata all’80% (nel 2017 la Cina ha prodotto 105.000 tonnellate di terre rare; Australia e Russia, il secondo e il terzo produttore seguono con 20.000 ton e 3.000 ton rispettivamente). Questo dato merita una riflessione: se un giorno, infatti, questo Paese decidesse di interrompere la fornitura metterebbe in ginocchio in pochi giorni l’industria aerospaziale, militare ed elettronica dei Paesi industrializzati.
A questo aspetto bisogna aggiungere la lungimiranza con cui gli stessi cinesi stanno investendo per “acquistare” di fatto un altro continente ricco di materie prime: l’Africa.
Dal 2009 la Cina è infatti il principale partner commerciale del continente africano, e negli ultimi dieci anni vi ha investito oltre 125 miliardi di dollari, con l’obiettivo dichiarato di creare le condizioni per la sua crescita economica. Oltre a realizzare infrastrutture, finanziare progetti per lo sviluppo industriale locale, in alcuni Paesi il governo cinese si è addirittura impegnato ad azzerare il debito nei propri confronti, ottenendo, di fatto, il controllo di una immensa miniera di materie prime e non solo. Diversi analisti cinesi sono convinti che il vero obiettivo del governo sia quello di spostare nel lungo periodo in Africa tutti i settori produttivi ad alta intensità di forza lavoro ottenendo un risparmio sia sui costi delle materie prime attualmente importate, sia sui costi legati alla “gestione” dell’inquinamento e della forza lavoro locale. Senza considerare il conseguente sviluppo di un nuovo mercato potenzialmente ricettivo anche rispetto a tecnologie per noi più obsolete.
Nonostante queste evidenze sia l’America, più impegnata a capire come imporre dazi per limitare le importazioni, sia l’Europa, che continua a considerare l’Africa unicamente come una fonte di problemi, sembrano non comprendere l’importanza di queste tematiche. Ci sarebbe molto più da scrivere su questi argomenti; mi auguro che i decision maker ai più alti livelli comprendano che il futuro dell’economia non si determina solo con qualche legge che regoli nel breve periodo gli investimenti locali o i flussi migratori, ma acquisiscano una visione macroeconomica ampia, guardando sempre oltre i propri confini.